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Una sfida di civiltà. L’Africa, noi e gli “altri”. Febbraio 1988

Il testo dell’intervento introduttivo del prof. Giuliano Campioni all’Assemblea costitutiva del circolo Africa Insieme. Pisa, 17 Febbraio 1988.

La sfida dell’immigrazione

La crescente immigrazione politica ed economica nel nostro paese, da parte di popolazioni africane, deve essere vissuta e sentita anche come sfida storica di civiltà: soprattutto per noi: è anche e soprattutto un nostro problema il prevenire e combattere i segni di barbarie che avanza che si leggono nei molti episodi quotidiani a conoscenza di tutti.

Per anni si è quasi fatto finta di non vedere: fino alla legge 943, applicata poi solo a livello di questura e di controllo normalizzatore. Legge che, pur coi suoi limiti, può diventare oggi una forza propulsiva: riconosce infatti i diritti all’istruzione, al mantenimento della cultura d’origine, all’assistenza, parla di consulte, ecc., anche se è molto deludente e criticabile per l’aspetto dell’integrazione lavorativa. È ancora soltanto una promessa di cambiamento in quanto è lontana da ogni applicazione in positivo.

Dopo l’episodio di Abdou Diaw: l’esigenza di una nuova presenza associativa a Pisa

L’esigenza di un momento di coordinamento e collaborazione di forze diverse rispetto al problema pressante dell’immigrazione africana a Pisa è nata, apparentemente in forma casuale, da un sintomatico e significativo episodio di violenza nei confronti di un venditore senegalese avvenuto agli inizi di dicembre e dai meccanismi di rifiuto e di chiusura corporativa da un lato, dal desiderio di solidarietà fattiva e politica dall’altro, a fronte di problemi che di giorno in giorno si mostravano più gravi.

L’episodio, per le reazioni nell’opinione pubblica democratica ha suscitato un inizio di contromovimento, la presa di coscienza di un problema non più eludibile da parte di nessuno.

Basti qui ricordare le parole dell’Arcivescovo e del Sindaco, la posizione del presidente dell’Amministrazione provinciale, dei sindacati, dei giornali democratici che hanno seguito con attenzione la vicenda che, dopo la lettera pubblica di Abdou Diaw, ha avuto anche una risonanza sulla stampa a livello nazionale.

(Ricordiamo, per tutti, l’intervento di Pietro Folena che parlava, a proposito della presa di posizione del sindacato aziendale dei vigili, che difendeva l’indifendibile, di “un inquietante esempio di rottura di solidarietà”).

Già però l’anno passato, in occasione della legge 943 del 30 dicembre 1986, sindacati, amministratori, Lega dei diritti dei popoli, l’Arci, organizzazioni del volontariato cattolico, le forze politiche democratiche, si erano impegnate per i primi provvedimenti e le prime prese di coscienza del problema.

Ma le forti ambiguità della legge, la pressione di quelli che sono i molti problemi di vita della nostra città, l’impossibilità (per ragioni materiali e per una mancanza di conoscenza della lingua) di voce autonoma e quindi di spazi di soggettività da parte della maggioranza degli immigrati, avevano impedito che si andasse oltre le prime pur importanti realizzazioni: un comitato per stranieri presso i sindacati, un progetto di consulta.

Ora in tutta Italia il problema sta esplodendo: si tratta di voler vedere per contribuire a percorrere una strada di accresciuta civiltà e non di barbarie.

La risposta degli enti locali a Pisa: tra passi avanti e promesse non mantenute

I nostri amministratori hanno fatto promesse e qualche realizzazione: la consulta approvata dall’Amministrazione provinciale ma non ancora attiva, la disponibilità della stessa amministrazione a farsi carico dei corsi di lingua italiana.

Ma molte sono rimaste promesse: e quando si hanno rapporti con uomini così privi di tutto ma non di dignità e di fiducia nella credibilità di chi è stato democraticamente eletto, non si possono dire parole e farle rimanere tali.

Ad esempio, le promesse degli amministratori del Comune, comparse sulla stampa, di “permessi di vendita subito”: A presto anche le licenze – così suonava un titolo sulla cronaca locale. Perché questo fu affermato – o successivamente non smentito se questa via non era praticabile – e poi lasciato lettera morta?

Così pure le promesse fatte in assemblee pubbliche coll’Associazione dei Senegalesi di occuparsi del problema grave delle residenze – la mancata residenza mette nell’impossibilità anche di acquistare una macchina usata -.

Oppure ancora: a proposito dei corsi di formazione professionale dentro i quali spetta per diritto un posto su dieci agli immigrati extracomunitari e per i quali sono state fatte le domande da parte di molti di questi giovani, perché non si sono avvertite le comunità che vi erano limiti di tempo rigidi?

Oppure – visto che questi lavoratori non hanno avuto finora nemmeno il diritto all’informazione – perché non vi è stata più elasticità o una qualche deroga nell’accogliere le loro domande e nel soddisfare il loro diritto alla partecipazione? Perché la legge funziona inesorabile e rigida verso di loro solo quando è restrittiva o addirittura repressiva?

Difendere i diritti, a partire dalla quotidianità della vita di tutti i giorni

Siamo abituati, quando parliamo di paesi lontani del Sud del mondo, a fare interventi di elevato livello democratico e culturale ma ora che, rappresentanti di questo mondo li abbiamo con noi, spesso non siamo capaci neppure di comunicare con loro.

È il momento di occuparci della loro vita materiale, anche di cose spicciole, perché è attraverso queste che si misura il nostro grado di democrazia e civiltà.

Il problema del commercio ambulante degli immigrati

Ad esempio: il problema delle vendite. Quello del commercio ambulante è l’unico settore in cui si sono riversare le ultime leve di immigrati. È stata per loro una scelta obbligata: un settore in cui la concorrenza, per gli italiani, si traduce in un danno minimo ammesso che questo esista.

La comunità dei senegalesi, la più numerosa e compatta, anche a nome degli altri immigrati ha esposto bene, subito dopo l’episodio di Abdou Diaw, in un documento al sindaco ed agli amministratori di Pisa la specificità di una condizione:

“In primo luogo abbiamo il problema del lavoro. Appena arrivati qui ci siamo iscritti nelle liste di collocamento, ma finora non abbiamo visto neppure uno di noi ottenere un lavoro. Non abbiamo lavoro ma siamo uomini e dobbiamo pur vivere: per questo siamo obbligati a vendere in questo modo, anche se la legge non lo permetterebbe. Siamo una comunità onesta e non vogliamo rubare o fare in alcun modo del male agli altri. Perciò il nostro primo desiderio è quello di trovare un lavoro normale, come tutti gli altri. Fra noi abbiamo tanti mestieri: ci sono muratori, meccanici, autisti, elettricisti, falegnami ecc. Sappiamo che siamo numerosi, ma sarebbe importante che anche solo alcuni fossero inseriti in attività lavorative regolari perché questo sarebbe per tutti un segnale di accettazione e di non emarginazione”.

E poi continuavano:

“E qui vorremmo dire cosa significa per noi sottostare ai controlli dei vigili. Non poter vendere o avere la mercanzia sequestrata significa non poter pagare l’alloggio ed essere costretti a dormire all’aria aperta. Molti di noi, dopo il sequestro della merce vanno a dormire, anche in inverno, sul mare o alla stazione ecc.”

Sono parole da meditare: la “ruota” della vendita illegale è la loro forma specifica di schiavitù quando entrano in Italia: altro mezzo di sostentamento non vedono, altro mezzo di sostentamento non hanno. Questa “ruota” li separa dal resto della nostra società, impedisce loro di trovare alternative, e soprattutto, mi sembra, uguaglia ciò che è diverso, appiattisce e umilia potenzialità e ricchezza di lavoro.

Sono accomunati da questa catena giovani alle soglie dell’università o universitari, artigiani che hanno alle spalle esperienza preziosa di lavori e mestieri. Capacità musicali anche notevoli, fantasia, intelligenza: tutto viene mortificato da questa nuova schiavitù funzionale, per altro, all’espansione così contorta della nostra economia che ha nel sommerso e nel lavoro nero un punto di forza.

Il commercio ambulante: le risposte repressive

Ogni volta che si sequestra loro la mercanzia – e questo è un fenomeno che si va intensificando attraverso l’intervento anche della finanza – si colpisce non il produttore con i suoi guadagni, produttore che forse non è necessario andare a cercare molto lontano, ma immediatamente le possibilità di sopravvivenza di queste persone.

Cerchiamo le soluzioni a livello di lavoro reale ma intanto è astrattezza ignorare il loro problema quotidiano: la risposta del Comune di Pontedera di concedere permessi al mercato è un segnale di disponibilità concreta che contribuisce a modificare – tra gli stessi commercianti – atteggiamenti gretti di rifiuto e di richiesta di repressione.

È una scelta politica che chiede la risposta di altri comuni nella stessa direzione: una risposta politica che fa parte di un contromovimento verso l’ottuso – inconscio – odio di civiltà manifestato da certi commercianti e dalle loro organizzazioni anche a livello pubblico (implicitamente e idealmente chiedendo un gemellaggio con Pretoria).

Le organizzazioni dei commercianti

In una lettera pubblica, piena di minacce verso gli amministratori fino “a difendere i diritti in piazza a Tirrenia” un gruppo di commercianti accusa “i famosi senegalesi”, “marocchini o senegalesi che dir si voglia” che oltre a “portar degrado alla nostra cittadina”

“vengono a disturbarci ulteriormente cercando di piazzare i loro tappeti sotto le nostre vetrine per sfruttare la luce. Non basta. Entrano addirittura nei ristoranti e nei bar e, senza problemi vanno a disturbare la clientela offrendo orologi, occhiali, cinture, radioline, pile, collane ecc. […] Nonostante questo voi amministratori pubblici non fate niente. Siamo forse nella città del Bengodi? Allora dato che la cittadina del Bengodi è da voi tollerata vi dichiariamo che saremo noi ad usufruire di tutto questo ben di Dio perché, come fanno loro faremo noi. […] Chissà forse abbiamo più diritto di loro dato che da 25 anni paghiamo sempre i vostri tributi” [Lettera a Il Tirreno del 22.1.1988, firmata: Un gruppo di commercianti di Tirrenia].

A proposito delle tasse, sempre messe avanti con la richiesta esplicita di repressione verso gli abusivi, sappiamo tutti quanti che, se è vero che i commercianti le pagano puntualmente, è anche vero che questi ultimi godono dei servizi sociali negati anche a livelli di sopravvivenza agli immigrati extracomunitari.

Queste prese di posizione non sono certo isolate e si esprimono ancora più decisamente e volgarmente: basta passare per il mercato o anche in Borgo dove la presenza degli Africani era – perché ormai la situazione è normalizzata – ritenuta antiestetica dai negozi luminosi e di lusso che certo non potevano addurre il pretesto della concorrenza.

Ma sarebbe ingiusto accusare tutta una categoria: in realtà possiamo vedere molti bar ed esercizi in cui questi lavoratori sono accolti con solidarietà.

La posizione della Confesercenti

Tanto più meraviglia la presa di posizione della Confesercenti – anche contro prese di posizioni precedenti delle Confederazioni sia a livello nazionale che locale – che invece di contribuire a limitare le incomprensioni e i pregiudizi chiarendo la situazione di disagio di questi immigrati, si è fatta portavoce di una diretta richiesta al prefetto, al sindaco e alla questura, di repressione verso i più deboli. Cosa inaudita per un sindacato democratico – sintomo di un grave disorientamento e perdita di valori.

La scusa “ideale” dietro a cui ci si nasconde, di voler così combattere chi si arricchisce con questo commercio, è aberrante come la sarebbe per un sindacato che chiedesse di reprimere e multare il muratore che lavora senza assicurazione o il minorenne prima di cadere dall’impalcatura, per colpire le speculazioni edilizie.

Chiediamo perciò di rimeditare queste posizioni tenendo presente che i loro effetti sono ben tangibili e continui: anche stamani sei sequestri di merci al mercato hanno ridotto alla disperazione altrettante persone.

Il problema della casa

Per quanto riguarda il problema delle abitazioni il discorso vale per gli studenti come per gli ambulanti: nella nostra città in cui si colpisce continuamente chi vende accendini o cassette pirata, si è permissivi con chi froda il fisco affittando fuori di ogni norma a studenti, con chi alza ulteriormente il prezzo se lo studente è di colore, con chi ammassa decine di persone in due stanze ad un milione e più al mese se queste, oltre che di colore, sono anche ambulanti.

Stiamo attenti: sono segni di una barbarie che avanza legata a una miopia di interessi.

Il circolo Africa Insieme

Queste posizioni nascono anche da diffidenze e pregiudizi legati all’ignoranza.

Mi sembra importante e primario vincere la diffidenza con la conoscenza: di qui l’idea di promuovere il circolo Africa Insieme come centro di iniziative culturali in cui siano soggetti e protagonisti gli immigrati con le loro comunità e come strumento che individui e segua il problema secondo tre direttive primarie: il diritto alla salute, la tutela giuridica e il diritto al lavoro.

Tutto ciò naturalmente a partire dalle diverse competenze: enti locali, forze associative, sindacali ecc. ed offrendosi come spazio per il riferimento e la raccolta di bisogni ed esigenze.

Questo è un circolo culturale: con la consapevolezza che per comprendere e conoscere a fondo realtà tanto diverse occorre un livello alto di cultura che si confronti però continuamente con le condizioni materiali per modificare il senso comune.

Si deve promuovere a tutti i livelli una conoscenza della storia complessa, delle condizioni di partenza e della situazione attuale di questi immigrati: studenti, lavoratori, disoccupati.

Il Sud del mondo

Lo scopo non deve essere l’assimilazione ma l’essere uguali nel riconoscimento e nel rispetto della diversità: è stato sottolineato più volte da pochi coraggiosi l’assoluta – distorta — povertà di informazione rispetto al Sud del mondo: questa compare – per immagini/sensazioni – solo in contesti di fame, carestia, guerre, siccità.

Manca invece la componente culturale dell’Africa: un patrimonio d’incredibile ricchezza e varietà reperibili nella vita quotidiana, nelle esperienze religiose, nella musica, nella danza, nella nuova cinematografia, ecc. Esistono film d’autore, movimenti filosofici che partono e si legano alla varietà e complessità di tradizioni, da conoscere e da far conoscere.

Nell’800 il filosofo della ragione occidentale Hegel affermava che “nell’Africa vera e propria è la sensibilità il punto a cui l’uomo resta fermo: l’assoluta incapacità di evolversi […] il paese infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé”.

Quando la storia arrivò non mancarono altri pregiudizi e teorizzazioni pseudoscientifiche e biologiche funzionali all’oppressione e allo sfruttamento: con il colonialismo la storia dell’Africa è stata ancora la nostra storia: certo una delle pagine più vergognose.

E’ il caso quindi di accostarsi con serietà e rispetto a questi problemi, non con la boria del civile opulento che dona ma con la consapevolezza e la modestia di chi restituisce parte del maltolto.

Ed anche ora bisogna essere consapevoli della stretta interconnessione economica fra Nord e Sud del mondo e della responsabilità che le potenze industriali hanno anche per i disastri ecologici e le siccità che colpiscono periodicamente l’Africa (e questo spesso anche quando intervengono per “aiutare” lo sviluppo). E basti qui ricordare appena il terribile problema – che coinvolge massicciamente anche il nostro paese – della vendita delle armi al Terzo Mondo.

“E’ questo l’atteggiamento ipocrita – come è stato scritto – di offrire con una mano i 1.900 miliardi stanziati per la lotta alla fame e con l’altra ingenti quantità d’armi che contribuiscono a creare quel dramma che oggi è l’Africa” (da «Nigrizia», maggio 1985).

E’ necessario cominciare ad impegnarsi in una conoscenza precisa per arrivare al rispetto e ad interventi mirati senza confusione.

Conoscere il mondo dell’immigrazione, combattere gli stereotipi

Bisogna caratterizzare la specificità per il problema di cui stiamo trattando nella Provincia di Pisa: porre la differenza tra i lavoratori immigrati (meglio dire disoccupati immigrati in cerca di lavoro), e altre forme di marginalità molto diversa (il caso dei nomadi, ad esempio, da risolvere con altri interventi). La mancanza di chiarezza può creare uno spreco di iniziative e, al limite, aumentare soggettivamente e oggettivamente l’area della marginalità.

Non si deve partire dalla reazione soggettiva di rifiuto o di solidarietà che accomuna i propri oggetti nell’indistinto, che tende a non chiarire (ancora una volta privilegiando la nostra centralità) ma arrivare alla conoscenza rispettosa dell’altro attraverso un censimento delle potenzialità lavorative di questi giovani, con i loro mestieri di origine e con la loro disponibilità.

Porre differenze all’interno dell’identità di una comunità significa far riemergere storie di individui che la condizione di immigrato sembra aver cancellato tagliando i fili che legano il futuro col passato di ciascuno e bloccandolo in una uniforme condizione di inferiorità, in un tutto indifferenziato.

Allora emergono le differenze di civiltà e di cultura, di esperienze, in un arricchimento reciproco. Emerge la storia dei molti partiti a piedi per sfuggire alla morte per fame, che hanno attraversato il deserto soffrendo fame e sete – dove non pochi hanno trovato la morte -, l’impatto violento con i bianchi di chi proviene dai villaggi e dalla campagna, che porta con sé, in sé, un mondo del tutto diverso, vecchie e nuove forme di solidarietà e di comunità che rendono loro incomprensibile una realtà concorrenziale, disumana, opulenta.

Persone che mantengono un legame forte con chi è lontano, che hanno lasciato le loro famiglie a cui, le rare volte che possono, spediscono poche migliaia di lire, preziose per vivere in un mondo di povertà assoluta di cui si conosce la mortalità infantile: secondo i dati della Banca mondiale “entro il ’95 l°80% della popolazione africana vivrà sotto le soglie della povertà assoluta, cioè sotto il tetto dei 130 dollari l’anno”.

Il nostro impegno per il futuro

Impegnarsi per risolvere anche i più spiccioli di questi problemi, in un’epoca in cui il modello è quello dell’egoismo rampante e vittorioso, di una cultura narcisista e ripiegata sul proprio io, fino a vedere nell’evento un prodotto dell’osservatore; non è da respingere come residuo solidaristico è impotente, ma rappresenta, io credo, una sfida che ci sta davanti e che ci può fare andare avanti.

La sfida di una cultura democratica che deve assumere i problemi di lavoro, di abitazione, di servizi, ecc., dei nostri ceti diseredati e alla stessa maniera anche quelli dei nuovi immigrati: il nostro è un paese con disoccupazione e sacche rilevanti di emarginazione e miseria ma è anche un paese dell’opulenza e dello spreco, della violenza e del dominio nelle immagini e nella pubblicità, accanto e vicino ormai ad un mondo dove si muore di fame.

Si deve arrivare alla consapevolezza che non esistono disoccupati bianchi o neri, stranieri o italiani, ma una serie di bisogni a cui dare risposta. Una sfida ai valori dominanti, contro un modello di sviluppo che produce mostri quotidiani.

Giuliano Campioni

Intervento all’assemblea costitutiva del circolo Africa Insieme. Ripubblicato in G. Campioni, L’identità ferita. Genealogie di vecchie e nuove intolleranze, ETS, Pisa 1993, pagg. 107-116.

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Porto Franco, 1998-2001

Tra il 1998 e il 2001, Africa Insieme partecipa alle attività del progetto regionale “Porto Franco”, organizzando convegni e iniziative di ricerca.

Leggi:

Porto Franco. I documenti del progetto, 1998-2001

Che cos’è il Progetto Porto Franco. Scheda a cura della Regione Toscana

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L’Atlante delle Migrazioni in Toscana. Novembre 2000

Nel Novembre 2000 Africa Insieme della Toscana collabora alla stesura del primo “Atlante delle Migrazioni in Toscana”, promosso dal Progetto Regionale Porto Franco. Tra i curatori del volume, Giuseppe Faso di Africa Insieme di Empoli.

Leggi:

L’Atlante delle Migrazioni

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Contro la tratta degli esseri umani. Il progetto Anabasis (2006-2009)

Un progetto realizzato in collaborazione con la Provincia di Pisa e con l’Istituzione Centro Nord Sud: contro la tratta degli esseri umani, per la diffusione di una corretta informazione alle vittime e agli operatori.

Lo spot realizzato da Ilaria Sposito, diffuso nelle televisioni locali

L’opuscolo informativo sulla tratta, curato da Sergio Bontempelli e Gaia Colombo

La Nazione, 12 Agosto 2008

Il testo del progetto presentato al CESVOT

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Ottobre 2008, contro le discriminazioni

Nell’Ottobre 2008 Rebeldia realizza un video sulle discriminazioni delle agenzie immobiliari contro gli stranieri. Nel filmato si vede il meccanismo della discriminazione: prima chiama lo straniero e si sente rispondere che le case non ci sono; poi chiama l’italiano e – miracolosamente – “spuntano” le case. Il video viene presentato ad una seduta della commissione del consiglio comunale competente in materia sociale. Rebeldia e Africa Insieme chiedono un consiglio comunale sui temi dell’immigrazione e dei diritti dei cittadini stranieri.

Stralci dal video di Rebeldia

Leggi anche: Il Tirreno, 27 Ottobre

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Gli immigrati in provincia di Pisa, Maggio 2004

Nel Maggio 2004, in una intervista al quotidiano “Il Tirreno” e in una successiva, parziale rettifica, l’associazione Africa Insieme fornisce numeri e dati sulla presenza migrante in città e in provincia.

Leggi gli articoli

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Le regolarizzazione mancate. Documento per il Viminale, Aprile 2000

Documento A.I. sulle regolarizzazioni mancate

ed altro ancora…

A) Diniego di rilascio del P.D.S per alloggio non congruo:

Numerosi sono i cittadini stranieri che, al momento della domanda di regolarizzazione, hanno presentato, per rispondere al requisito della idonea sistemazione alloggiativa, dichiarazioni o situazioni ritenute poi inadeguate.

– Alcuni di questi avevano la dichiarazione di ospitalità firmata da un loro connazionale, titolare del contratto di affitto, mentre la Questura (Pisa) aveva richiesto, dopo il primo mese dall’inizio della regolarizzazione, la firma, un documento e poi anche la presenza del proprietario italiano.

– Altri hanno dichiarato alloggi che poi sono risultati case semi-diroccate o abbandonate

– Altri, anche in questure diverse da Pisa, ad esempio Pescara, avevano dichiarazioni di alloggio in appartamenti troppo affollati.

A tutti questi, anziché avvisarli in tempi possibili di produrre una diversa documentazione, si è risposto con il decreto di diniego del soggiorno, dopo molti rinvii, alla fine di Marzo.

Il legale che collabora con noi, per evitare costi troppo elevati e soprattutto perché il TAR dà sempre risposte negative, ha tentato ricorsi gerarchici producendo le situazioni alloggiative nuove, che queste persone avevano ormai reperito da molti mesi, ma è stato vano. Ultimamente in Questura hanno detto al legale che su queste tematiche non è consentito neppure il ricorso al Capo dello Stato.

Un precedente ricorso al TAR aveva avuto esito negativo pur trattandosi di un senegalese regolarmente soggiornante in Italia da dieci anni, lavoratore, che non aveva comunicato il cambiamento di domicilio in Questura e che è stato dato irreperibile perché non trovato per varie volte alla vecchia residenza (che peraltro l’anagrafe non aveva cancellato).

Precisiamo che tutti i casi di questo genere che si sono rivolti a noi, sono persone che lavorano, ben inserite e assolutamente incensurate.


Chiediamo se non si ritenga possibile chiedere al Ministero di indicare alle Questure di prendere in considerazione, qualora la situazione di partenza sia risultata non congrua, la situazione alloggiativa attuale. (questo sarebbe possibile soprattutto con ricorsi al Questore interessato, in quanto la situazione alloggiativa congrua sarebbe immediatamente verificabile)

b) Diniego di soggiorno per espulsione amministrativa subita nei paesi dell’area Schengen:

I casi di questo tipo sono molti: riguardano soprattutto Macedoni cui era stato rifiutato l’asilo in Germania e le cui pratiche si erano concluse con un’espulsione. Qui a Pisa abbiamo il caso di famiglie in cui la moglie si è regolarizzata e il marito no (o viceversa).

Ma abbiamo poi anche tanti ‘casi’ delle più diverse nazionalità.

L’espulsione Schengen sta bloccando, inoltre, anche i rinnovi di soggiorno di vecchia data: esempio un senegalese, titolare di soggiorno in Italia, era andato in Francia diversi anni fa, respinto verso l’Italia perché senza soggiorno in Francia, ha poi rinnovato per due volte il soggiorno italiano senza problemi; ora, da quasi un anno, il suo soggiorno in scadenza non si rinnova perché sui terminali compare la vecchia espulsione Schengen.

– Aggiungiamo anche il caso di un altro cittadino (stavolta rumeno, ma ve ne sono molti altri) che, ben inserito in Italia, si è visto in questi giorni rifiutato il soggiorno per espulsioni avute in Germania per motivi come i sopracitati, amministrativi, ma anche per reati irrilevanti, puramente strumentali, mai ostativi (un furto semplice di un paio di scarpe e un altro di alimenti).

Consideriamo che gli stranieri sanzionati con l’espulsione in un paese diverso dall’Italia verrebbero ad essere fortemente penalizzati rispetto a chi, per motivi identici, aveva ricevuto il decreto d’ espulsione in Italia.

Chiediamo se è possibile -in presenza degli altri requisiti richiesti dal D.P.C.M 16 Ottobre 98 – in luogo del ‘diniego’ concedere un soggiorno eventualmente a ‘validità territoriale ristretta’ valido, cioè, soltanto per l’Italia.

Oppure chiediamo se è possibile concedere comunque un soggiorno semplicemente richiamandosi alla legge in vigore che impone l’espulsione soltanto:

– quando si riveli pericolosità per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato, ( art. 13)

– quando il giudice ha ravvisato gli estremi della ‘pericolosità sociale’ e quindi ha posto la misura di sicurezza in sentenza e non ha ritenuto di poterla revocare (art. 15)

– oppure infine, quando l’espulsione si presenta come sanzione sostitutiva della detenzione.

A queste precise categorie di ‘espulsi’ si può pensare ci si riferisse quando, nel DPCM del 16 Ottobre 98 (art. 6) si vietava il rilascio del soggiorno a coloro per i quali ” l’ingresso o il soggiorno nel territorio dello stato non possono essere consentiti”

A partire da tali considerazioni, inoltre, ci chiediamo se non sia possibile dare indicazione di rivedere le scelte che molte Prefetture hanno compiuto in materia di risposta alla richiesta di revoca di espulsione amministrativa a chi risultasse denunciato, condannato o segnalato per qualsiasi reato, anche senza aver l’espulsione come misura di sicurezza data dal giudice.

c) Diniego di rilascio di soggiorno per cittadini stranieri sottoposti a misure alternative alla detenzione, esempio affidamento in prova al CSSA

Tali misure hanno come condizione necessaria il lavoro.

Inoltre è condizione necessaria per vivere da non detenuti avere alloggio e assistenza sanitaria.

E’ quasi impossibile attuare tali condizioni senza ricorrere a lavoro nero, affitti illegali etc, se all’ordinanza che definisce la misura alternativa, non corrisponde un soggiorno che consenta, per il periodo in questione, anche il regolare lavoro e ciò che ne consegue in tema di assistenza e vita civile.

Ciò è tanto più importante dal momento dell’applicazione della legge Simeoni.

Citiamo un caso tra molti altri, su cui abbiamo il parere positivo dell’allora Magistrato di Sorveglianza di Pisa, dott. Niro (ora presso il Tribunale di Sorveglianza di Firenze presieduto dal dott. Margara)

A. H.

Richiesta soggiorno per la durata del periodo di affidamento al CSSA. Possibilità (a fine affidamento – due anni – e se il percorso sarà positivo ) di veder riesaminata la domanda di soggiorno. presentata ex D.P.C.M 16/0ttobre 98.

Situazione:

– affidato in prova al CSSA dalla libertà.

– prima di ottenere l’affidamento in prova aveva fatto domanda di regolarizzazione secondo il DPCM del 16 ottobre 98. In precedenza aveva avuto un provvedimento di espulsione per presenza irregolare in Italia. Contestualmente alla domanda di regolarizzazione, quindi, ha presentato anche richiesta di revoca del provvedimento di espulsione. L’espulsione non è stata revocata, ma per il momento non c’è alcuna risposta ufficiale alla richiesta di regolarizzazione in quanto, comunque, questo cittadino deve rimanere in Italia fino a fine pena e fruisce della misura alternativa dell’affidamento al CSSA. L’espulsione non è stata revocata a seguito della decisione del Prefetto di non revocare – salvo eccezioni individuali – espulsioni (amministrative e pur in assenza di espulsione giudiziaria) a chi risultasse condannato per qualsiasi reato.

A.H. non è, quindi, al momento, assimilabile alla figura di un irregolare e, ancor meno, di un clandestino.

Durante la libertà, in attesa della Camera di Consiglio per la discussione sulla richiesta di affidamento in prova al CSSA, il suddetto cittadino straniero aveva cercato e trovato un lavoro in una ditta edile. Questa aveva infatti dichiarato, anche per la richiesta di regolarizzazione, la propria intenzione di assumere A.H. qualora questi avesse avuto un soggiorno.- e questa dichiarazione di intenzione era stata prodotta al Tribunale di Sorveglianza per l’ottenimento dell’affidamento in prova – Su quella base, oltre che sull’impegno di volontariato da parte dello straniero, era stato deciso, dal Tribunale, l’affidamento. Ora però, la Questura ha rifiutato – ma non c’è comunicazione scritta del diniego – il rilascio del soggiorno (di un qualunque tipo di soggiorno) anche per il periodo della misura alternativa. Per essere assunto, quindi, lo straniero deve consegnare al datore di lavoro l’ordinanza di affidamento. La questione, così posta, va concludendosi con la perdita dell’offerta di lavoro.

– il Magistrato di sorveglianza ha scritto una nota per indicare la necessità di rilasciargli un permesso di soggiorno che consenta il lavoro durante l’affidamento.

La nota era riferita in generale all’istituto dell’affidamento in prova e quindi doveva valere per tutti coloro che ne usufriscono.

Al momento in cui l’affidato ha chiesto il soggiorno, esibendo il parere del Magistrato (parere che il Magistrato stesso aveva già fatto pervenire in Questura) la Questura ha rifiutato dicendo che:

a) esiste la circolare n.27/93 del Min. del Lavoro che consente la stipulazione di un contratto di lavoro per la durata della misura alternativa a semiliberi, affidati e vigilati, anche a prescindere dal possesso di soggiorno e di iscrizione al collocamento.

b) non esistono più i soggiorni per giustizia e quindi non può più essere apposta tale dicitura, ‘giustizia’, con l’aggiunta della ‘autorizzazione al lavoro per decisione del Magistrato’. Questa era la soluzione adottata – cinque mesi fa ed anche allora su richiesta del Magistrato di Sorveglianza- per un cittadino in libertà controllata e quindi con obbligo di dimora e di firma. Ora però la Questura non ritiene di poter applicare la procedura suddetta anche ad un affidato essendo questo (a differenza del libero-controllato) una figura contemplata dalla circolare sopra citata del Ministero del Lavoro ed essendo ora, a differenza di cinque mesi fa, comparso il regolamento attuativo della legge 40 e circolari seguenti che vieterebbero tale soluzione.

c) non sembra opportuno (su parere espresso al telefono dal Ministero) rilasciare un soggiorno con l’unica dicitura (una volta scomparso il motivo di giustizia): “autorizzato al lavoro su parere del Magistrato“, se pur con la scadenza coincidente con quella dell’affidamento, perché ciò equivarrebbe, hanno detto, ad alimentare speranze vane (!).

Come conseguenza di questa risposta lo straniero in questione, quindi, deve consegnare alla ditta che si è impegnata ad assumerlo quando era in attesa di affidamento, il decreto del Tribunale di Sorveglianza. Il commercialista della ditta dovrebbe con quello attivare presso l’Ufficio Provinciale del lavoro, le pratiche per l’assunzione.

Noi notiamo che:

– la circolare del Ministero del lavoro cui la questura fa riferimento è del 93. Ma dopo questa data la legge Simeone dà la possibilità di cercare-trovare lavoro dalla libertà, entro un tempo determinato prima della decisione sulla eventuale misura alternativa. Generalmente il datore di lavoro dichiara la propria disponibilità all’assunzione ‘qualora il cittadino straniero ottenga il soggiorno che lo autorizzi a rimanere e lavorare in Italia, se pur per un tempo determinato’. Questa è una cosa diversa da trovare lavoro attraverso percorsi carcerari, ditte o cooperative che hanno rapporti con l’istituzione penitenziaria e quindi scelgono di utilizzare la manodopera detenuta. Dall’interno del carcere, poi, possono trovare lavoro quanti hanno all’esterno una rete familiare-amicale che effettua la ricerca di lavoro per il congiunto detenuto: condizione assai rara per uno straniero.

– essere obbligati per lavorare (e per ogni altra esigenza della vita libera) a mostrare l’ordinanza di affidamento, con il suo linguaggio tecnico, gli articoli di codice, le motivazioni che fanno ben sperare sul soggetto in questione va contro alla legge sul diritto alla riservatezza, e presuppone nei datori di lavoro una capacità di analisi del testo (fino ad individuare la possibilità di assunzione) impensabile: quel documento non verrà mai accettato in sostituzione di ciò che il commercialista della ditta solitamente chiede di consegnargli anche soltanto per mettere in prova: iscrizione al collocamento, soggiorno, residenza, iscrizione al Servizio Sanitario

– inoltre, se lo straniero ha soltanto quell’ordinanza di affidamento, sarà nell’impossibilità di stipulare il contratto di casa, avere una cessione di fabbricato (obbligatoria per chi lo ospita), la residenza, l’assistenza sanitaria. Insomma, sarà un fantasma giuridico – in quanto con diritti non praticabili – che cammina finché non chiederà lui stesso di rientrare in carcere o commetterà un nuovo reato di sopravvivenza.

– la circolare del 93 del Ministero del Lavoro dava la possibilità di fare contratti senza soggiorno a chi, dal carcere, avesse trovato il lavoro e l’ alloggio e quindi poteva godere della misura alternativa. La circolare, cioè, esplicita una possibilità in più, non vieta il soggiorno se non nella misura in cui questo venga interpretato come valido nei suoi effetti anche allo scadere della pena. Essendo una circolare del Ministero del Lavoro si preoccupa di dare la possibilità di lavoro, non altro.

Alla Questura – al Ministero dell’Interno – sta la competenza per il soggiorno.

Lo straniero, a qualsiasi titolo autorizzato e per qualsiasi periodo, a permanere sul territorio dello stato, ha un solo documento che definisce questa possibilità: il soggiorno. Ed è soltanto quel documento che può e deve mostrare all’anagrafe, al datore di lavoro, all’ASL etc per avere i relativi certificati e diritti.

Se la motivazione ‘giustizia’ non può più essere adoperata come motivazione dei soggiorni può esserci quella ‘lavoro’: la data di scadenza coincidente con la fine della misura alternativa ci sembra sufficiente a ridimensionare speranze (ma che male c’è, poi, se anche uno straniero può sperare nella valenza rieducativa della pena e, in particolare, nel significato di reinserimento che di solito ha la misura alternativa?)

Se è un Magistrato a chiedere un soggiorno che consenta il lavoro per il collaboratore di giustizia, questo viene concesso. Perché non può essere concessa la medesima cosa a chi, grazie al lavoro, può ottemperare alle condizioni di applicazione della misura alternativa?

Questo rifiuto del soggiorno per le misure alternative crea differenze discriminanti rispetto ai cittadini italiani in due settori in cui pur si afferma la parità di trattamento: la giustizia e le sue forme di esecuzione, e il lavoro, oltre che nel diritto alla privacy.

Raccomandiamo attenzione anche a questa casistica, perché sono talvolta certe rigidità nella normativa o nella sua interpretazione che segnano una differenza incolmabile fra italiani e stranieri e contribuiscono a far si che si abbia tanta frequentazione e permanenza in carcere e tanta recidiva da parte degli stranieri. Su questo da più parti si esprime preoccupazione, ma la risposta non può essere soltanto in termini repressivi.

Sottolineiamo infine che le persone in questione non sono clandestine, avendo giacente una richiesta di regolarizzazione ai sensi del DPCM del 16 Ottobre 98 ed hanno l’obbligo di rimanere in Italia per la misura alternativa. Non sarebbe più opportuno per tutti trasformare quest’obbligo in una possibilità di reinserimento e di vita regolare, invece che in una corsa ad ostacoli, spesso insuperabili, dove le cadute sono dannose e per i soggetti in questione e per la società ospitante?

I datori di lavoro chiedono l’iscrizione al collocamento anche soltanto per tenere una settimana in prova. Immaginiamo quali probabilità avranno di tradursi in assunzione quelle prescrizioni del giudice consegnate al Commercialista dell’azienda. Gli Uffici preposti per l’impiego, inoltre, hanno obbiettato che non era possibile mostrare alle ditte quel foglio di affidamento con articoli di condanna e prescrizioni perché ciò significava un mancato rispetto della normativa sulla privacy.

Mentre scriviamo queste parole abbiamo notizia della sconfitta di un altro cittadino, un filippino, che al termine del periodo di affidamento, in cui ha sempre lavorato,benché, per i motivi suddetti, al nero, si vede rifiutata la regolarizzazione richiesta secondo il DPCM del 16 ottobre 98. Il rifiuto è dovuto ad un’espulsione amministrativa del 94, che la Prefettura non revoca perché il cittadino ha commesso, appunto, un reato. Il fatto che il giudice non gli abbia applicato la misura di sicurezza dell’espulsione, che il giovane abbia un buono e comprovato reinserimento grazie all’affidamento in prova, non è considerato motivo sufficiente per concedergli – dopo un periodo di permanenza in Italia di dieci anni – un regolare permesso di soggiorno.

d) Soggiorni per ex detenuti

Si tratta di cittadini che abbiano riportato condanna sospesa o patteggiata o che abbiano scontato una pena detentiva cui il Giudice non abbia ritenuto opportuno applicare la misura di sicurezza o l’abbia rivista e revocata (ad esempio a seguito dell’osservazione con esito positivo durante una misura alternativa alla detenzione).

Ci sembra opportuno chiedere un parere positivo al rilascio di un soggiorno per lavoro a fine pena nel caso che avessero un soggiorno in corso di validità (o rinnovabile) al momento dell’arresto o abbiano fatto domanda di regolarizzazione ex D.P.C.M 16 Ottobre 98: la legge, infatti, non fa più menzione di reati ostativi e demanda al Giudice la decisione (art. 15) a meno che si tratti di persona pericolosa per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato (art. 13). In particolare ci sembrerebbe legittimo considerare la positività del percorso di reinserimento e la sussistenza delle condizioni previste dalla normativa per il rilascio del soggiorno: disponibilità di un alloggio e di una proposta di lavoro

Qui di seguito riportiamo la descrizione della situazione di un cittadino straniero che, titolare di soggiorno prima della carcerazione, al termine di questa ha trascorso un anno in libertà controllata. Dopo questo anno il Giudice ha revocato l’espulsione presente nella sentenza di condanna, individuando nuovi e positivi elementi di inserimento sociale.

In casi come questi chiediamo se si ritiene che la legge 40 consenta il recupero del soggiorno.

Ci è stato obiettato che il rischio sarebbe quello di far equivalere la pena detentiva ad una sorta di sanatoria. Non è così, perchè la nostra richiesta è limitata a quanti erano regolarmente soggiornanti prima della detenzione e a quanti hanno presentato domanda di regolarizzazione ex DPCM 16/10/98

Esempio:

T.T.: richiesta di parere sulla possibilità di ottenere di nuovo il soggiorno al termine della misura di libertà controllata.

Libertà controllata , obbligo di firma e di dimora nel Comune di Pisa.

Inizialmente abbiamo fatto, con la Questura di Pisa, un quesito al Ministero, che ha dato l’indicazione di rendere possibile, con un soggiorno, l’esecuzione della misura decisa dal Magistrato.

E’ stato rilasciato, nell’Aprile 99, un soggiorno per giustizia.

Dato che il soggiorno per giustizia non consente l’iscrizione al collocamento e quindi il lavoro, abbiamo chiesto, d’accordo con l’Ufficio Stranieri della Questura di Pisa, il parere del Magistrato di Sorveglianza affinché sul soggiorno comparisse l’autorizzazione al lavoro limitatamente al periodo della libertà controllata.

Il Magistrato, con riferimento agli articoli del Codice che comunque vedono in positivo l’attività lavorativa per coloro che sono in libertà controllata, ha espresso parere favorevole a che sul soggiorno fosse posta la dicitura “può lavorare su autorizzazione del Magistrato”

Così il cittadino straniero ha potuto stipulare un regolare contratto di lavoro e mantenersi onestamente.

Il 22 Aprile – al termine del periodo di libertà controllata — è scaduto il suddetto soggiorno. Nel frattempo il signor T. ha ottenuto la revoca dell’espulsione in conseguenza al giudizio di cessata pericolosità sociale da parte della Magistratura Giudicante.

Dato che

– non esistono più, nella nuova normativa, i reati automaticamente ‘ostativi’ e la decisione sull’espulsione è demandata, per chi aveva il soggiorno, al Giudice (nel caso specifico il Giudice ha già revocato la misura di sicurezza)

– il mancato rinnovo del vecchio soggiorno è da imputarsi alla carcerazione, così come la mancata domanda di nuova regolarizzazione ai sensi del DPCM 16 Ottobre 98

e che il signor T.:

– aveva il soggiorno al momento dell’arresto

– ha un buon inserimento: alloggio presso una famiglia italiana e contratto di lavoro. L’inserimento fortemente positivo è sottolineato anche nell’ordinanza di revoca dell’espulsione da parte del Giudice.

– manca dal suo paese da ben 11 anni e quindi ha perso là ogni radice o legame

chiediamo se si ritiene possibile che gli venga rilasciato , al termine del periodo di libertà controllata, un normale soggiorno per lavoro. Per il momento la domanda è pendente in Questura, e siamo in attesa di risposta


e) Disposizioni riservate del Ministero e risposte delle Questure

Chiediamo inoltre

a) se esiste una disposizione, se pur riservata, del Dipartimento Stranieri, sulla necessità che i registri delle Associazioni di volontariato o assistenziali che hanno rilasciato dichiarazioni da esibire come prove di presenza del cittadino straniero anteriormente alla data del 27 Marzo 98, siano stati vidimati (pagina per pagina) da autorità superiori prima dell’entrata in vigore della legge 40.

Le dichiarazioni della nostra associazione, infatti, come quelle delle Parrocchie con firme vistate dalla Caritas Diocesana, sono state accettate (con firma autenticata e con pagine dei registri con il nostro timbro) dalle Questure, con l’unica eccezione della Questura di Cosenza, che chiede appunto tale vidimazione facendo riferimento ad una disposizione riservata.

Noi non conoscevamo tale disposizione: su questa base sono stati respinti, come prova di presenza di un cittadino straniero, e i nostri registri (li avevamo inviati) e la nostra dichiarazione.

Facciamo presente che nel caso specifico trattasi di cittadino del Marocco incensurato, ora perfettamente inserito nella nostra realtà: frequenta infatti la scuola edile, è il primo, per profitto, del corso, ed ha già, quindi, proposte di lavoro da parte di ditte e con buona qualifica.

Facciamo presente inoltre che:

– era assai difficile avere i nomi degli irregolari su registri vidimati, ad esempio, per il caso specifico, dall’Amministrazione Comunale per il cui conto gestivamo una struttura di accoglienza e l’annesso sportello informativo e di aiuto per emergenze.

– all’inizio della regolarizzazione, a Pisa, in un incontro fra Amministrazione Comunale e Prefettura, fu deciso che sarebbero state accettate come prove dichiarazioni del volontariato come quella di cui sopra (con le pagine del registro) e dichiarazioni delle Parrocchie controfirmate dalla Caritas.

Nessuna altra questura ci ha fatto l’obiezione opposta al cittadino del Marocco dalla Questura di Cosenza nei giorni 27/28 marzo 2000.

a1) se appare corretto, che quando si dichiarava falsa la prova presentata da un cittadino straniero al momento della domanda di regolarizzazione, la questura facesse contestualmente firmare al cittadino in questione, in lingua per lui non leggibile, che non aveva altra prova. Sulla base di questa dichiarazione firmata ma non compresa dallo straniero, la Questura di Palermo ha rifiutato l’altra prova di presenza, pur ritenuta di pìer sé valida e presentata in termini di tempo accettabili e quindi ha negato la concessione del PdS pur in presenza di tutti gli elementi richiesti dal DPCM e soltanto per un errore di comprensione di un foglio che il ragazzo ha inopinatamente firmato, su richiesta dello sportello dell’Ufficio Stranieri

Trattasi di cittadino tunisino incensurato, in condizioni di buon inserimento a Pisa.

B) se è possibile concedere il rinnovo di permesso di soggiorno ad un cittadino libico la cui ambasciata rifiuta – se la richiesta avviene dall’Italia – il rilascio del passaporto. Si tratta di cittadino incensurato in possesso di documenti di identità assolutamente certi (carta di identità, certificato di nascita, certificato penale, carta militare e lasciapassare per il rientro). Gli manca soltanto il passaporto. Essendosi trattenuto in Italia per un tempo superiore a quello consentito, rischia l’arresto se torna in Libia.

C) Dato che la legge consente, per favorire l’uscita dalla prostituzione o dal rischio della medesima (o comunque da una rete di illegalità), la concessione di soggiorno per protezione anche nel caso che l’interessata/o non riesca a produrre grandi cose per le indagini ci chiediamo quanto sia corretto il comportamento della Questura di Pisa che in un caso specifico ha negato il documento perchè le rivelazioni non erano ‘sostanziose’.

Ci sembrerebbe infine opportuno ripensare alla confusione prodotta (nei tempi e nel merito) dal doppio canale:

– diniego di soggiorno: quindi ricorso al TAR (costi gravosi e tempi lunghi)

– espulsione conseguente al diniego: quindi ricorso al Pretore che può valutare nel merito della condizione di inserimento del cittadino, può non considerarlo un clandestino dal momento che ha presentato domanda di soggiorno, decide in tempi brevi.

Le due decisioni hanno oggettiva difformità, mantenere questa duplicità rispetto ad un problema sostanzialmente unico sembra fonte ulteriore di difficoltà e costi, oltre che di incertezza nelle applicabilità della normativa.

Africa Insieme

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Interferenze urbane: una riflessione sulla città (2007)

Il 2 e 3 Novembre 2007 il Progetto Rebeldia promuove una due giorni di dibattito, studio e riflessione sulle dinamiche della città, sulle “emergenze sicurezza” del dibattito pubblico, sul futuro urbanistico e sociale di Pisa. Africa Insieme partecipa alle giornate, promuovendo un seminario su “Le città di frontiera: immigrazione e spazi urbani”.

Leggi: gli interventi al seminario organizzato da Africa Insieme

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Tanti soldi spesi male: un’inchiesta sulla spesa sociale a Pisa (2003)

Nel 2003 Africa Insieme promuove un’ampia ricerca sui finanziamenti degli enti locali nelle politiche dell’immigrazione. La ricerca, pubblicata in volume per le edizioni ETS, viene così riassunta dal prestigioso sociologo Franco Ferrarotti, curatore della prefazione: “Africa Insieme documenta con impressionante precisione che la spesa complessiva destinata ad iniziative a favore degli immigrati è molto alta, ma che i risultati sono molto scarsi. Vien da pensare che qui si stia verificando lo sconcertante fenomeno che i sociologi definiscono come spostamento dei fini, vale a dire un’organizzazione messa in piedi per far fronte a un problema sociale finisce per servire a far del bene solo a se stessa”.

Leggi:

Il volume di Africa Insieme

Il dossier della Zona Sociosanitaria in risposta alle accuse di Africa Insieme

La recensione del volume su La Nazione, 20 Aprile 2003

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Il realismo e la realtà: cosa fare dei CPT. Autunno 2005

Il realismo e la realtà: cosa fare dei CPT

Nei mesi scorsi la discussione sui CPT (Centri di permanenza Temporanea, le strutture previste per l’identificazione e l’eventuale espulsione di immigrati non regolari) ha avuto alcune occasioni di confronto all’interno dello schieramento di centrosinistra: una giornata dedicata all’immigrazione nella “fabbrica del programma” di Prodi; l’iniziativa del Presidente della Puglia, Niki Vendola, che ha convocato gli altri Presidenti delle regioni; il confronto di Cecina, al Meeting, con i partiti del centro sinistra e una parte importante del movimento antirazzista, nonché quello alla Festa dell’Unità di Firenze tra Massimo D’Alema e Fausto Bertinotti; e, in ambito cittadino, una lettera aperta di Eros Cruccolini, Presidente del Consiglio comunale di Firenze e iscritto ai DS, al Presidente del suo partito, D’Alema, a cui sono seguite, sui giornali locali, alcune repliche, in parte polemiche in parte di sostegno.

Secondo un riflesso condizionato, non nuovo per la sinistra, la discussione pare polarizzarsi tra un approccio più attento alla tutela del diritto e dei diritti (in passato attribuito alle “anime belle” del garantismo), e uno che privilegia invece il realismo politico, la responsabilità di governo, il senso della misura su questioni che inquietano l’opinione pubblica.

Poco importa che in questo caso le “anime belle” rappresentino uno schieramento largo e trasversale, che va da giuristi a costituzionalisti, da associazioni e operatori del mondo della solidarietà e del volontariato, fino a forze e figure politiche di rilievo nel centrosinistra (almeno a giudicare dalla giornata presso la “fabbrica del programma” e dalla riunione indetta da Vendola); e che gli argomenti da questi proposti tocchino aspetti fondamentali per la democrazia e per lo stato di diritto.

Le domande che, in nome del realismo politico, vengono rilanciate per azzerare questi argomenti sono in apparenza insuperabili: come si contrasta l’immigrazione clandestina? Come si garantiscono legalità e sicurezza?

Domande, in effetti, troppo serie per essere lasciate senza risposta. E ci si aspetterebbe che chi, “realisticamente”, sostiene la necessità dei CPT (magari gestiti democraticamente dalle amministrazioni di centrosinistra) si affidasse alla forza dei dati e dei risultati conseguiti nella lotta all’immigrazione clandestina attraverso i CPT.

Infatti, dati e risultati sono disponibili, e le fonti sono insospettabili: Ministero dell’Interno e Corte dei Conti.

Dal 2001 al 2004 sono stati trattenuti presso i CPT, per l’identificazione e l’espulsione dei non regolari, circa 60.000 immigrati; di questi circa la metà è stata rimpatriata, mentre l’altra metà ha avuto una qualche forma di regolarizzazione.

Negli stessi anni, esclusi i respingimenti alle frontiere, sono stati rintracciati in Italia circa 370.000 immigrati irregolari o clandestini; e ricerche attendibili stimano l’ingresso clandestino di circa 250-300 mila immigrati all’anno, che poi in larga parte, dopo periodi più o meno lunghi di presenza non regolare o clandestina, trovano una qualche forma di regolarizzazione (in particolare tramite le sanatorie).

Quindi, nei 4 anni analizzati dal Ministero dell’Interno, di fronte a oltre 1 milione di ingressi non regolari, i CPT hanno “accolto” circa 60.000 persone e ne hanno rimpatriate 30.000: come strumento principe della lotta all’immigrazione clandestina non sembra un risultato esaltante.

Sempre sotto il profilo del realismo e della responsabilità di governo, un altro capitolo non proprio edificante riguarda i costi della gestione dei CPT: nel 2003 e nel 2004 i 18 Centri attivi sono costati 50 milioni di euro all’anno, cifra che rappresenta la voce più rilevante delle risorse destinate dal governo alle politiche per l’immigrazione (comprese le misure per l’integrazione). Chiunque può farsi due conti.

C’è dell’altro nei dati e nella gestione dei CPT (l’inevitabile arbitrarietà e aleatorietà delle procedure per l’identificazione, l’assenza di garanzie personali, gli abusi di potere), ma già le cifre citate sembrano sufficienti per un bilancio, o almeno per un ragionevole dubbio.

A questo punto incombe un’ulteriore, ineludibile domanda: ma cosa propongono i sostenitori della chiusura dei CPT, forse di aprire indiscriminatamente le frontiere?

La politica delle quote, così come è prevista, ha suscitato critiche che qui non riprendiamo. Ci limitiamo a dire che, se anche considerate valide come strumento, le quote dovrebbero essere ben più ampie delle attuali, e che vi sarebbe la necessità di affiancarvi altre misure.

Da anni sono in campo, da parte di esperti e associazioni, proposte che potrebbero avere, nella realtà di un processo dinamico come l’immigrazione, effetti di forte limitazione della clandestinità: a partire dall’introduzione di un “permesso di soggiorno per ricerca di lavoro”, che legalizzerebbe ciò che oggi già avviene irregolarmente e permetterebbe al governo di controllare gli ingressi e di non lasciarli in mano ai trafficanti di clandestini e al “fai da te” degli immigrati, che produce oggi circa 300 mila clandestini all’anno. Per poi proseguire con la possibilità di regolarizzarsi per chi, seppure entrato irregolarmente, ha trovato un inserimento lavorativo e abitativo.

La realtà di 20 anni di immigrazione verso l’Italia dice che più è difficile entrare legalmente (oggi è impossibile se non attraverso il ricongiungimento familiare) più incassano le mafie e i trafficanti, e più aumenta il rischio di scivolare verso l’economia illegale per immigrati impossibilitati a regolarizzare la propria posizione. Sempre la realtà dice che, in assenza di forme di ingresso regolare, il ricorso periodico alle sanatorie è indispensabile non solo alla vita di centinaia di migliaia di famiglie immigrate, ma alla nostra stessa economia e ai bisogni di cura di moltissime famiglie di italiani.

E’ altrettanto evidente che sarebbero poi estremamente necessarie una legge e degli interventi adeguati riguardanti i richiedenti asilo ed i profughi.

Davvero, nel caso delle politiche per l’immigrazione e dei CPT il realismo politico dovrebbe maggiormente ispirarsi alla realtà.

Rimane un ultimo problema: la rassicurazione dei cittadini. Non è forse vero che anche la Gran Bretagna di Blair sta adottando misure che limitano la sfera dei diritti individuali, per garantire maggiore sicurezza?

Senza entrare nel dettaglio delle decisioni assunte dal governo britannico, sarebbe opportuno che gli epigoni nostrani di Blair non commettessero l’errore (che non fa neanche il nostro prudentissimo Ministro dell’Interno, Pisanu) di confondere le misure di prevenzione contro il terrorismo con le politiche di accesso e di integrazione degli immigrati (che peraltro in Gran Bretagna sono tradizionalmente molto più aperte – nonostante un recente giro di vite nei confronti dei richiedenti asilo – e che neanche i provvedimenti antiterrorismo hanno intaccato sostanzialmente). Negli ambienti più avvertititi della cultura britannica si è semmai riaperto un dibattito (che è arrivato anche su alcuni nostri giornali nazionali) sui modelli di inclusione, sul problema delle giovani generazioni provenienti da famiglie di immigrati, sui loro processi identitari, sulle politiche positive da adottare.

La migliore rassicurazione per tutti i cittadini, migranti e nativi, è rappresentata dallo sviluppo di reali processi di convivenza, da effettive politiche di inserimento. La garanzia e il rispetto dei diritti di cittadinanza per gli immigrati, l’uguaglianza sostanziale e il superamento della stagione del diritto speciale sono le basi per costruire con loro una condivisione di regole e di valori comuni.

Le forze che appartengono al centrosinistra da anni sostengono una parola d’ordine che è tutt’ora validissima: l’immigrazione non è un problema ma una risorsa. Una risorsa economica, una risorsa demografica, una risorsa fiscale, e, non ultimo, una risorsa culturale decisiva per l’innovazione delle nostre politiche (nel campo dei servizi, della scuola, della casa) e delle nostre città.

Ora non resta che convincersene davvero.

Luigi Andreini, Resp. Immigrazione CNCA della Toscana
Associazione “Il Muretto”
Associazione “L’Altro Diritto”
Nancy Bailey, Comitato Statunitensi contro la Guerra
Beati i Costruttori di Pace
Moreno Biagioni, Consulente ANCI Toscana
Sergio Bontempelli, Africa Insieme – Pisa
Giuseppe Brogi, Aprile per la Sinistra
Luca Brogioni, Responsabile SDIAF
Leonardo Brunetti, Segretario Sezione DS “Ernesto Balducci”
Giuseppe Carovani, Sindaco di Calenzano, Resp. Consulta Immigrazione ANCI Toscana
Tiziana Chiappelli, Operatrice Interculturale
Lisa Clark, del Comitato “Fermiamo la guerra” di Firenze
Piero Colacicchi, ADM – Associazione per la Difesa dei Diritti delle Minoranze –
Ornella De Zordo, Consigliera Comunale – Firenze
Pape M’Baye Diaw, Associazione Senegalesi Firenze
Giuseppe Faso, Centro Interculturale Empolese Valdelsa
Tommaso Fattori, del Social Forum Firenze
Mercedes Lourdes Frias, Ass. ai Diritti di Cittadinanza – Comune di Empoli
Laura Grazzini, ARCI di Firenze
Salah Ibrahim, Ass.ne “El Mastaba”
Rosella Luchetti, della Rete di Lilliput – Empoli
Stefano Kovac, ARCI Toscana
Corrado Marcetti, della Fondazione Michelucci
Alessandro Margara, Presidente della Fondazione Michelucci
Gianna Maschiti, Ed. Penitenziario, Cultore Sociologia Processi Culturali – Un. di Firenze
Corrado Mauceri, Comitato per la Difesa della Costituzione –Firenze
Enzo Mazzi, Comunità dell’Isolotto
Filippo Miraglia, Resp. Immigrazione ARCI Nazionale
Marzia Monciatti, ex Ass. all’Istruzione ed alle Pari Opportunità – Provincia di Firtenze
Marisa Nicchi, del Comitato PERLA
Giancarlo Paba, Docente Universitario
Luciana Pieraccini, dell’Istituto “E. De Martino”
Progetto Accoglienza – Borgo S. Lorenzo
Renzo Rastrelli, Centro Documentazione e Servizi Immigrazione Comune di Prato
Riccardo Rigatti, Rete di Lilliput – Empoli
Pablo Salazar, del Consiglio degli Stranieri della Provincia di Firenze
Emilio Santoro, Docente Universitario
Maurizio Sarcoli, Operatore Interculturale
Nicola Solimano, della Fondazione Michelucci
Vincenzo Striano, Presidente ARCI Toscana
Sandro Targetti, Consigliere Provincia di Firenze
Riccardo Torregiani, Casa Diritti Sociali – Firenze
Unaltracittà/Unaltromondo
Marina Veronesi, Africa Insieme – Empoli

5/9/2005

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