Cresce la protesta per la proposta che prevede la punizione dell’offesa al sacro tramite rappresentazione”. E i salafiti saccheggiano e distruggono le opere.
“QUALE film t’è piaciuto di più? “Printemps des arts” o “Assalto all’ambasciata Usa?” chiede Willis, il gatto satirico tunisino: “A me piacciono tutti i film Ennahdha produzioni”, gli risponde un altro gatto. Nato dopo la rivoluzione dalla disegnatrice Nadia Khiari, il gatto Willis riassume così il malumore di moltissimi che oggi accusano il partito maggioritario islamista Ennahdha per i suoi ambigui rapporti con i salafiti e la spinosa questione dell'”offesa al sacro tramite rappresentazione”, termine di una applaudita proposta di legge del partito, che ora rischia di passare grazie a una serie di artifici.
Questa legge, che completerebbe un’altra esistente e ampiamente sfruttata anche da Ben Ali, prevede una pena di due anni di prigione e 2000 dinari di multa a chi offenda “Dio, i profeti, i libri, la Sunna (tradizione) dell’ultimo profeta, la Kaaba, le moschee, le chiese e le sinagoghe”. Si intende offesa al sacro “l’insulto, la derisione, la mancanza di rispetto e la profanazione materiale o morale del sacro con parole, immagini, rappresentazioni o personificazioni di Dio e dei suoi profeti”. E questo è il partito che veniva raccontato come moderato, “una sorta di democrazia cristiana”, si diceva in Occidente.
Più affarista che religioso, o le due cose insieme. Un anno fa, tal Giacomo Fiaschi, piccolo imprenditore italiano residente in Tunisia, aveva portato gli uomini di Ennahdha dei quali è diventato consigliere, al meeting di Comunione e Liberazione, dove l’immancabile Tarak Ben Ammar spiegava di essere stato designato da Dio alla produzione del film sulla Madonna per Rai fiction. In questo groviglio di affari e “religione” anche con l’Italia, appoggiato dal Qatar (connubio peraltro ben visto dagli Usa), il partito islamista si affacciava all’Occidente come baluardo contro le derive del fanatismo islamico e, nelle sintesi mediatiche, quindi, come protezione contro il terrorismo. Invece per l’opinione pubblica tunisina è ancora vivo il ricordo dei disastri, un morto e diversi feriti, di giugno scorso alla Marsa, la periferia Nord di Tunisi, durante la mostra “Printemps des Arts”.
Qui 27 artisti hanno esposto le loro opere, alcune delle quali giudicate fortemente offensive del sentimento religioso. Le opere sono state saccheggiate e distrutte dai salafiti generando così un clima di terrore. Gli autori si sono visti le loro foto con indirizzo e numero di telefono appese davanti alle moschee o su Facebook. Alcuni giorni fa, due degli artisti di “Printemps des arts”, Nadia Jelassi e Mohamed Slama sono stati citati in giudizio (su iniziativa del Procuratore e non a seguito di denuncia) in quanto loro, con le loro creazioni, sarebbero la causa dei disordini di giugno. Malgrado distinguo e correzioni del governo tunisino, questo tipo di accusa è un ulteriore segno del connubio tra l’attuale governo e forme di intolleranza religiosa. Mohamed Slama è fuggito all’estero, ma Nadia Jelassi subirà un processo in cui dovrà giustificare cosa volesse dire con la sua creazione: dei busti di donna in nero, posti raso terra, su un tappeto di pietre.
Le “offese” percepite sono le più disparate: offende le donne pie, incita la lapidazione, accusa indirettamente l’Islam etc. Di fatto, ci troviamo in termini diversi, di fronte allo stesso problema portato alla ribalta da “The innocence of Muslims”: un’opera che offende il sentimento religioso di molti. La questione della “libertà di espressione”, come si sta presentando in Tunisia, giunta nelle fasi finali della scrittura e discussione della Costituzione, perciò riguarderà tutti noi nei prossimi mesi, visto che “l’offesa al sacro” può diventare un’arma di distruzione tramite industria culturale e alla portata di chiunque. Soprattutto, tragicamente manipolabile.
“Nessuno aveva offeso il Profeta nelle opere esposte”, spiega Nadia Jelassi, “è vero che c’erano dei ‘barbutì in alcuni quadri, ma erano un’interpretazione dei salafiti che stanno facendo degenerare i presupposti della rivoluzione. Il film americano invece è un insulto continuo a noi musulmani, non è mai stato neppure rivendicato come opera d’arte, si è trattato chiaramente di una strumentalizzazione, e i salafiti sono caduti nella trappola. Noi siamo artisti e come tali dobbiamo lottare perché non passi mai un articolo che limiti la libertà di espressione nella nostra Costituzione. E poi, chi deciderebbe cosa è sacro e cosa non è sacro? Loro? E’ un concetto indefinibile e pericoloso perché lascia la porta aperta a ogni interpretazione”. Successivamente alla convocazione in tribunale, Jelassi è stata protagonista di una avvincente campagna virale ancora viva nei social network: ha postato la sua immagine con un righello per esorcizzare l’umiliazione subita della foto segnaletica cui è stata costretta.
L’hanno seguita su Facebook a migliaia, riproducendo la stessa immagine. Si direbbe che i problemi profondi del paese, come la povertà, la disoccupazione e le disuguaglianze, esauriscano sul terreno culturale tutti i conflitti: dalla questione del velo nelle università (prima vietato ora concesso), alla diffusione del film iraniano Persepolis su Nessma tv per cui è stato processato l’ex amico di Ben Ali, l’ambiguo amministratore delegato di Nessma, Nabil Karaoui. E prima ancora, c’era stato un altro assalto dei salafiti al cinema dove si proiettava il film di Nadia El Fani “Ni Allah ni maître”, sul concetto di laicità, appunto. Amor Ghedamsi scrittore e artista, segretario generale del Sindacato dei Mestieri e delle Arti aggiunge :”i salafiti sostengono un discorso totalitario, un progetto radicale dogmatico contro la libertà e la modernità che mira alla società attraverso l’arte. La lotta per noi è difficile perché per cinquanta anni, con Bourghiba e Ben Ali, abbiamo combattuto contro quella che si chiama ‘la modernità tradita’, che ha lasciato tracce nella nostra cultura e nel nostro modo di pensare, e che spiega anche questo fenomeno del salafismo”. Anche se, clamorosa contraddizione, le rivendicazioni di tanto sacro e tanto pudore si inseriscono in un panorama mediatico di migliaia di canali televisivi satellitari, di grandissimo seguito (visto anche il livello elevato di disoccupazione) che passano dal furore religioso al porno, e neppure troppo soft.
Un sistema di colonizzazione e formazione delle masse potentissimo, e una geografia di responsabilità di portata gigantesca. In questo clima di scontro culturale oscurantista, una voce illuminata è parsa quella dell’Imam della moschea El Badr ad Algeri (città rimasta miracolosamente lontana da ogni reazione, come tutto il paese del resto) che accusa i fedeli musulmani di aver offeso loro per primi il Profeta, e che se un film non piace “perché contro l’Islam” non resta che farne uno loro a favore della loro religione. Che è esattamente quanto detto da Marco Bellocchio a Militia Christi all’uscita del film su Eluana Englaro.